Riporto una recensione di Redacted molto di Brian De Palma scritta da Tullio Di Francesco su Nouvellevague.
Nel corso della guerra in Iraq alcuni soldati americani si introdussero nottetempo in un’abitazione di Samarra, stuprarono una ragazzina di quindici anni e la uccisero insieme a tutta la sua famiglia. È un fatto realmente accaduto, e ora Brian De Palma ne trae un film che sbarca al Lido nel concorso ufficiale e che azzera tutto quanto si è visto finora qui alla Mostra…
Perché non esito a definire Redacted, il nuovo film di De Palma, un capolavoro?
In primo luogo perché, anche se il fatto è autentico e l’impegno americano in Iraq ancora attuale, sarebbe pericoloso definire la pellicola un instant movie fatto per un pubblico americano. Essa è in realtà un’opera meditatissima, concepita come un testo teorico su tutto ciò che è visione e mezzo per rappresentare la realtà o fallire nel tentativo (i soldati nelle loro riprese continuano ad invocare la “verità”, ma questa esiste?). E, allo stesso tempo, è anche un film d’assalto girato nella vera filosofia del cinema indipendente della Nuova Hollywood, diretto da un decano della stessa rinunciando alla pellicola e affidandosi alle potenzialità digitali del DCP (Digital Cinema Package). Un testo che è la summa di quarant’anni di cinema depalmiano e un proliferare di germinazioni per il cinema del prossimo quarantennio.
Sono passati diciotto anni da Vittime di guerra, il suo film del 1989 che trattava lo stesso tema ambientato però durante la guerra del Vietnam, in cui un manipolo di marines stuprava una vietnamita prima di metterla a morte. E, nel frattempo, non sono cambiati solo gli equilibri del potere nel mondo, ma anche la guerra e la tecnologia capace di attuarla e rappresentarla. Già Jarhead di Sam Mendes aveva colto in pieno come, nelle guerre del ventunesimo secolo, il fattore tecnologico conti molto più di quello umano, ma anche l’altro film in concorso nella stessa giornata, In the Valley of Elah di Paul Haggis, che pure, al contrario di De Palma, ha una struttura classicissima, mette in evidenza come ormai la dimensione mediatica (anche a livello privato, non solo collettivo) sia ormai imprescindibile nella rappresentazione dei conflitti moderni.
C’è stata anche, nel frattempo, una cortocircuitazione della narrazione e della rappresentazione per immagini, una massificazione di queste ultime che ha condotto ad un’incapacità di decodificazione. De Palma si chiede come poter girare oggi lo stesso Vittime di guerra, dato che quello ha evidentemente fallito nel suo intento, e rappresentare ancora una volta la guerra riuscendo a stigmatizzarla per un pubblico capace di vedere ma non di “leggere” l’immagine. La risposta è, paradossalmente, rivolgersi alle stesse fonti che deve rappresentare. Nel film abbiamo principalmente quattro canali di informazioni visive. Le riprese del soldato Sarrazar che, sul campo, riprende i suoi filmini amatoriali in digitale (e qui c’è spazio anche per le celebri soggettive in pianosequenza di De Palma). Il documentario nel documentario, Barrage, che si finge sia girato da una troupe francese al fronte, le riprese oggettive delle telecamere di sorveglianza e, per finire, il grande magma di Internet che mette a disposizione efferati filmati di propaganda degli estremisti islamici e tutto il magma delle opinioni dei navigatori della rete.
È questa l’anima più teorica del film, dove, apparentemente, si abbraccia uno sguardo freddo e oggettivo, amorale. Dove non si può fare altro che essere “bombardati” dalle immagini che ti assalgono e ascoltare-vedere, senza poter intervenire sul cinismo e il razzismo che le ha generate.
Poi c’è l’altra anima, quella di un cinema profondamente morale (e non moralista), che monta la suspense fino a farci indignare (tremende la sequenza dello stupro e le giustificazioni dei soldati), ma che, soprattutto, si prende la sua rivincita proprio sulla manipolazione di quelle immagini che, in un primo momento, sembravano sovrastarci con la loro violenza.
Come in un film di Peckinpah, il mondo è ancora diviso tra formiche e scorpioni in continua lotta tra loro, dobbiamo farcene una ragione e non cedere all’ingenuità. Ma possiamo anche ridicolizzare questi arroganti, magari commentando le sequenze del geniale documentario francese che trasmette la vita quotidiana dei soldati americani con la Sarabanda di Handel, la stessa musica che Stanley Kubrick aveva utilizzato per il suo Barry Lindon. Non è una semplice citazione né un caso: addirittura i soldati sono ripresi nella loro immobilità con delle morbide zoomate in avanti e all’indietro proprio come nel film di Kubrick. In quest’ultimo la Storia era congelata in una prospettiva astorica e raggelante, dove tutti, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri alla fine sono uguali di fronte alla morte. In Redacted ogni soldato è già un fantoccio e De Palma ha uno sguardo che sorvola sulle contingenze della Storia. Il suo Iraq è già congelato nell’eterno ciclo e riciclo delle ricorrenze storiche, è già, al di là delle polemiche o delle prese di posizione, “incorniciato” e storicizzato, pronto per entrare nelle pagine di un libro di storia come tutte le altre inutili e superate guerre.
“Redacted”, in inglese, è l’atto di preparare un testo per la pubblicazione, magari censurandolo con dei bei tratti di pennarello per espungere le informazioni che possono essere pericolose o incriminanti. Cioè, manipolare. Se c’è una manipolazione in favore del segreto di stato, che tende a nascondere, perché non può essercene anche una dalla parte dell’integralità, del far vedere? E così, quelle semplici fotografie che chiudono il film, unico dato “vero” di tutta la pellicola, anch’esse manipolate con neri tratti di pennarello per salvaguardare l’identità delle “vittime di guerra”, hanno una laconica potenza superiore a qualsiasi retorico apologo o pamphlet, oltre che denudare con un paradosso l’ipocrisia dei sistemi che si reggono sulla guerra e concedere ai dannati della Terra un’agognata e meritata rivincita.
Nel corso della guerra in Iraq alcuni soldati americani si introdussero nottetempo in un’abitazione di Samarra, stuprarono una ragazzina di quindici anni e la uccisero insieme a tutta la sua famiglia. È un fatto realmente accaduto, e ora Brian De Palma ne trae un film che sbarca al Lido nel concorso ufficiale e che azzera tutto quanto si è visto finora qui alla Mostra…
Perché non esito a definire Redacted, il nuovo film di De Palma, un capolavoro?
In primo luogo perché, anche se il fatto è autentico e l’impegno americano in Iraq ancora attuale, sarebbe pericoloso definire la pellicola un instant movie fatto per un pubblico americano. Essa è in realtà un’opera meditatissima, concepita come un testo teorico su tutto ciò che è visione e mezzo per rappresentare la realtà o fallire nel tentativo (i soldati nelle loro riprese continuano ad invocare la “verità”, ma questa esiste?). E, allo stesso tempo, è anche un film d’assalto girato nella vera filosofia del cinema indipendente della Nuova Hollywood, diretto da un decano della stessa rinunciando alla pellicola e affidandosi alle potenzialità digitali del DCP (Digital Cinema Package). Un testo che è la summa di quarant’anni di cinema depalmiano e un proliferare di germinazioni per il cinema del prossimo quarantennio.
Sono passati diciotto anni da Vittime di guerra, il suo film del 1989 che trattava lo stesso tema ambientato però durante la guerra del Vietnam, in cui un manipolo di marines stuprava una vietnamita prima di metterla a morte. E, nel frattempo, non sono cambiati solo gli equilibri del potere nel mondo, ma anche la guerra e la tecnologia capace di attuarla e rappresentarla. Già Jarhead di Sam Mendes aveva colto in pieno come, nelle guerre del ventunesimo secolo, il fattore tecnologico conti molto più di quello umano, ma anche l’altro film in concorso nella stessa giornata, In the Valley of Elah di Paul Haggis, che pure, al contrario di De Palma, ha una struttura classicissima, mette in evidenza come ormai la dimensione mediatica (anche a livello privato, non solo collettivo) sia ormai imprescindibile nella rappresentazione dei conflitti moderni.
C’è stata anche, nel frattempo, una cortocircuitazione della narrazione e della rappresentazione per immagini, una massificazione di queste ultime che ha condotto ad un’incapacità di decodificazione. De Palma si chiede come poter girare oggi lo stesso Vittime di guerra, dato che quello ha evidentemente fallito nel suo intento, e rappresentare ancora una volta la guerra riuscendo a stigmatizzarla per un pubblico capace di vedere ma non di “leggere” l’immagine. La risposta è, paradossalmente, rivolgersi alle stesse fonti che deve rappresentare. Nel film abbiamo principalmente quattro canali di informazioni visive. Le riprese del soldato Sarrazar che, sul campo, riprende i suoi filmini amatoriali in digitale (e qui c’è spazio anche per le celebri soggettive in pianosequenza di De Palma). Il documentario nel documentario, Barrage, che si finge sia girato da una troupe francese al fronte, le riprese oggettive delle telecamere di sorveglianza e, per finire, il grande magma di Internet che mette a disposizione efferati filmati di propaganda degli estremisti islamici e tutto il magma delle opinioni dei navigatori della rete.
È questa l’anima più teorica del film, dove, apparentemente, si abbraccia uno sguardo freddo e oggettivo, amorale. Dove non si può fare altro che essere “bombardati” dalle immagini che ti assalgono e ascoltare-vedere, senza poter intervenire sul cinismo e il razzismo che le ha generate.
Poi c’è l’altra anima, quella di un cinema profondamente morale (e non moralista), che monta la suspense fino a farci indignare (tremende la sequenza dello stupro e le giustificazioni dei soldati), ma che, soprattutto, si prende la sua rivincita proprio sulla manipolazione di quelle immagini che, in un primo momento, sembravano sovrastarci con la loro violenza.
Come in un film di Peckinpah, il mondo è ancora diviso tra formiche e scorpioni in continua lotta tra loro, dobbiamo farcene una ragione e non cedere all’ingenuità. Ma possiamo anche ridicolizzare questi arroganti, magari commentando le sequenze del geniale documentario francese che trasmette la vita quotidiana dei soldati americani con la Sarabanda di Handel, la stessa musica che Stanley Kubrick aveva utilizzato per il suo Barry Lindon. Non è una semplice citazione né un caso: addirittura i soldati sono ripresi nella loro immobilità con delle morbide zoomate in avanti e all’indietro proprio come nel film di Kubrick. In quest’ultimo la Storia era congelata in una prospettiva astorica e raggelante, dove tutti, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri alla fine sono uguali di fronte alla morte. In Redacted ogni soldato è già un fantoccio e De Palma ha uno sguardo che sorvola sulle contingenze della Storia. Il suo Iraq è già congelato nell’eterno ciclo e riciclo delle ricorrenze storiche, è già, al di là delle polemiche o delle prese di posizione, “incorniciato” e storicizzato, pronto per entrare nelle pagine di un libro di storia come tutte le altre inutili e superate guerre.
“Redacted”, in inglese, è l’atto di preparare un testo per la pubblicazione, magari censurandolo con dei bei tratti di pennarello per espungere le informazioni che possono essere pericolose o incriminanti. Cioè, manipolare. Se c’è una manipolazione in favore del segreto di stato, che tende a nascondere, perché non può essercene anche una dalla parte dell’integralità, del far vedere? E così, quelle semplici fotografie che chiudono il film, unico dato “vero” di tutta la pellicola, anch’esse manipolate con neri tratti di pennarello per salvaguardare l’identità delle “vittime di guerra”, hanno una laconica potenza superiore a qualsiasi retorico apologo o pamphlet, oltre che denudare con un paradosso l’ipocrisia dei sistemi che si reggono sulla guerra e concedere ai dannati della Terra un’agognata e meritata rivincita.
1 commento:
(non puoi sapere ma lo sai quanto mi sono girate quando ho scoperto che redacted non era nella panormaica in trasferta a mi)
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