martedì 19 febbraio 2008

R/F - CESKY SEN di Vít Klusák e Filip Remunda


Il sogno Ceco, ovvero un documentario sul finto lancio promozionale di un grande magazzino nella perferia di Praga. Un gioco al confine tra realtà del documentario e fiction, in questo caso teso a rappresentare il mondo ex-comunista alle prese con un capitalismo selvaggio e una spropositata voglia di essere come sono gli occidentali.
La mattina del 31 Maggio 2003, pochi minuti prima delle 10, oltre 3000 persone a Praga attendono, in un desolato campo verde, l’apertura di un centro commerciale. Molte di loro stringono buste di plastica o trascinano trolley. La folla, che si accalca lungo le transenne, sembra euforica per l’imminente inaugurazione del “Ceský Sen” (Sogno Ceco) e qualcuno cerca di capire cosa si nasconda dietro l’imponente cartellone, alto dieci metri e largo cento, la cui apparente funzione è di celare la facciata principale dell’edificio. Alle dieci in punto le transenne sono rimosse e inizia una forsennata corsa verso l’Eldorado. Ma i primi che raggiungono il tanto famigerato obiettivo ci mettono poco a capire che l’Ipermercato non aprirà mai, perché non è mai esistito.Il tiro mancino, immortalato dalle telecamere, è opera dei giovani cineasti cechi Vít Klusák e Filip Remunda, studenti della rinomata Accademia cinematografica della Repubblica Ceca. L’idea del documentario è strepitosa nella sua apparente semplicità e i due mascalzoni hanno programmato proprio tutto per farsi beffa dei cittadini di Praga e non lasciare nulla al caso. Per due settimane le strade della capitale sono state invase da enormi manifesti per il lancio del centro commerciale e una martellante campagna pubblicitaria, organizzata da una rinomata agenzia, ha coinvolto le principali radio e televisioni; e poi un sito web, 200.000 volantini stampati e inserzioni su magazine e quotidiani. Insomma, la prima massiccia campagna commerciale per un prodotto che non esiste. In patria Ceský Sen ha provocato feroci polemiche e controversie, per il modo con il quale i due filmmaker si sono burlati di un’intera nazione. Il caso è stato addirittura discusso in Parlamento.

Fa specie costatare che l’eco di un’opera così innovativa abbia faticato a travalicare i confini nazionali. In ogni caso il risultato artistico del documentario è un divertito e a volte grottesco sguardo sui devastanti effetti che l’ingorda smania consumistica sta provocando nella Repubblica Ceca e, più in generale, nelle società post-comuniste. Questo film ha inoltre il non comune pregio di rappresentare, senza fronzoli ideologici e intenti moralistici, il famigerato e distorto universo dei creativi del marketing, capaci, con le loro scelte, di produrre effetti devastanti sulla vita dei consumatori. Anche attraverso la descrizione di alcuni studi all’avanguardia nel campo, come un infernale strumento ottico, provato su alcuni clienti-cavie, capace di calcolare l’esatta traiettoria dello sguardo così da comprendere quali possano essere i messaggi promozionali più persuasivi e accattivanti.Ma la forza di Ceský Sen consiste nella sua capacità di suscitare molteplici chiavi di lettura conservando, sempre, un discorso coerente. E allora non si può fare a meno di esaltare l’esperimento sociologico volto a dimostrare il potere mistificatorio e di manipolazione dell’immaginario collettivo da parte dei media, cinema compreso. Se il linguaggio documentaristico del cinema diretto è stato pensato tradizionalmente come forma filmica tesa a rendere un evento nel momento in cui accade, con interferenze minime da parte del regista, allora cos’è, se non film di finzione, la ripresa di un luogo o di un evento immaginario? Ceský Sen è il documentario di una finzione. Sembrano queste due parole antitetiche, eppure i due giovani registi documentano una realtà inventata, costruita a tavolino, manipolata. Ma la dicotomia realtà-finzione è presto risolta perché se programmata è la causa, imprevedibili sono gli effetti, inattese le reazioni emotive delle persone. I veri protagonisti del film, sono proprio loro, l’orda di famelici e smaniosi consumatori, nell’attesa di entrare nel centro commerciale immaginario, nuovo luogo di culto del Dio Omologazione, sul cui altare si sacrificano quotidianamente buon senso, soldi e tempo libero. Proprio quando la macchina da presa fissa i volti inebetiti e le reazioni stizzite dei sorpresi malcapitati, il film è ricondotto nell’alveo documentaristico più tradizionale.



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